In questo articolo tratterò un tema che potrebbe risultare monotono, ma è indispensabile per concludere il discorso intrapreso ne “Lo squilibrio dei poteri”. In quell’articolo ho sostenuto che negli ultimi anni, in tutte le democrazie europee, si sta manifestando uno squilibrio del potere esecutivo ai danni del legislativo. Per capire meglio come questo fenomeno si stia manifestando in Italia, basta dare uno sguardo alle leggi elettorali con le quali abbiamo votato negli ultimi anni. Innanzi tutto chiariamo cos’è un sistema elettorale: in maniera spicciola possiamo affermare che è il modo in cui votiamo e contiamo i voti. Detta così sembrerà una cosa banale, ma in realtà è di una complessità enorme, infatti sono più di 50 anni che siamo alla ricerca di un sistema elettorale adeguato al nostro Paese. Ogni volta pensiamo di averlo trovato, per poi renderci conto che non funziona e ricominciamo da capo, come nel gioco dell’oca. Si passa dall’essere più o meno tutti concordi sul sistema proporzionale, al condannarlo considerandolo la causa di tutti i mali, e iniziare a tifare per il maggioritario, poi ci si imbatte in discussioni senza fine confrontando i sistemi uninominali o plurinominali, disquisendo anche sul turno unico o sul doppio turno, per poi decidere che è meglio il proporzionale corretto ma subito dopo ci si confronta sulla soglia di sbarramento e sul premio di maggioranza, in un dibattito infinito. Tutto questo senza capire che forse la politica non funziona per altri motivi, tra cui la mancanza di senso civico, e che se non si acquisisce il senso dello Stato iniziando a trasmetterlo dalle scuole dell’infanzia, possiamo sperimentare tutti i sistemi elettorali, ma il risultato sarà sempre deludente. In realtà non esiste un sistema elettorale perfetto, perché quest’ultimo, come vedremo, dipende dal risultato che si vuole raggiungere e dalla storia e tradizione dei Paesi che lo applicano. Inoltre, se la cosa ci può consolare, non è un problema che riguarda solo noi, basti pensare che nella democrazia più antica del mondo, quella britannica, dove da sempre vige un sistema elettorale maggioritario, da qualche anno si sta discutendo se passare al proporzionale, tra l’altro già adottato in alcune elezioni locali, come il parlamento scozzese e il consiglio comunale di Londra. Prima di fare considerazioni, vediamo meglio di cosa si tratta. Iniziamo con il dire che il nostro sistema elettorale non è previsto dalla Costituzione, la quale lascia libero il Parlamento di sceglierlo con legge ordinaria. Essendo la nostra una repubblica parlamentare, i cittadini eleggono soltanto i rappresentanti di Camera e Senato e non il capo del governo che è espressione del partito di maggioranza. Fino al 1993 tutte le votazioni in Italia si sono svolte con il sistema proporzionale, il quale prevede che i seggi (posti in parlamento) siano assegnati in proporzione ai voti presi dai partiti. Il sistema proporzionale è il sistema più veritiero: se un partito prende il 15% dei voti avrà il 15% dei seggi in Parlamento, se un altro prende il 10% avrà il 10% dei seggi. E’ una sorta di fotografia alla situazione politica del Paese. Essendo l’Italia storicamente un Paese con tante espressioni politiche che vanno dall’estrema destra all’estrema sinistra, con il sistema proporzionale tutte le formazioni politiche venivano rappresentate democraticamente in base ai consensi che ricevevano dai cittadini. Però, con questo sistema, nessun partito otteneva la maggioranza assoluta dei seggi, quindi i rappresentanti del popolo una volta eletti, decidevano in Parlamento le alleanze che avrebbero sostenuto e dato la fiducia al governo. Quindi, i cittadini non conoscevano prima il nome del Presidente del consiglio, che era frutto dell’accordo tra i partiti. Se il lato positivo di questo sistema era la rappresentanza democratica, il lato negativo era la frammentazione, perché l’eccessivo numero dei partiti favoriva la polverizzazione dei voti. Difatti i partiti più grandi come la Democrazia cristiana, che comunque non aveva la maggioranza assoluta, erano costretti a trovare accordi con i partiti minori, e questo significava mettere insieme idee diverse con programmi diversi, e alla prima difficoltà le strade si dividevano con la conseguenza caduta dei governi. Infatti si è passati dal famoso “centrismo” degasperiano che ha visto la luce nel 1948, dove la Dc governava con i partiti laici minori, al periodo del “centro-sinistra” iniziato nel 1962, che ha visto la Dc alleata con il Partito socialista italiano, alla brevissima esperienza del governo di “solidarietà nazionale” del 1978, che per la prima volta ha coinvolto il Partito comunista italiano, per passare subito alla formula del “pentapartito” (democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali) degli anni ’80. Ricordiamo che per cinquant’anni abbiamo avuto una “democrazia bloccata”, perché il Partito comunista, tranne che nella brevissima parentesi del ’78, essendo filo-sovietico non poteva andare al governo, in quanto l’Italia aveva aderito al Patto Atlantico, e un eventuale vittoria dei comunisti avrebbe visto la dura opposizione dagli Stati Uniti. La caratteristica comune dei governi di quegli anni era la notevole instabilità, infatti in 48 anni la Prima Repubblica, che va dal 1946 al 1994, ha visto ben 51 governi. Le cose cambiano con la crisi del sistema politico del 1992 avviato con l’inchiesta giudiziaria “Mani pulite” che portò alla totale perdita di credibilità dei partiti di governo. Le cause della partitocrazia furono attribuite principalmente al sistema elettorale proporzionale, e nel 1993 con larghissimo consenso dei cittadini, si passò al “Mattarellum” sistema elettorale maggioritario che prende il nome dal relatore della legge, Sergio Mattarella, attuale Presidente della repubblica. Si passa anche all’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle province e delle regioni, che fino ad allora erano stati eletti dai rispettivi consigli. Insomma, il maggioritario sembrava la soluzione a tutti i mali che affliggevano il nostro Paese, e tutti, dai politici agli osservatori, ai mezzi di informazione e di conseguenza ai cittadini, ne erano convinti. In realtà la legge Mattarella per le elezioni di Camera e Senato prevedeva un sistema misto, infatti i ¾ dei deputati e senatori erano eletti con un sistema maggioritario basato su collegi uninominali, mentre ¼ era eletto con il sistema proporzionale. Le elezioni politiche del 27 marzo 1994 con il nuovo sistema elettorale segnano l’inizio della Seconda Repubblica, con l’affermazione del bipolarismo e con tanta speranza. In effetti, in Italia prende il via un fenomeno che era sempre mancato: l’alternanza. Per la prima volta partiti di centro-destra e centro-sinistra si alternano al governo del Paese. Ma il sistema elettorale non soddisfaceva l’allora classe politica, così ci si avvia verso una nuova riforma, e nel 2005 viene approvata la legge Calderoli, meglio conosciuta come “Porcellum”, perché pare che il giorno in cui fu votata dal parlamento l’allora Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione, Roberto Calderoli esclamò: “questa legge è una vera porcata”. Da allora questa è la legge che abbiamo utilizzato per eleggere i nostri rappresentanti in Parlamento, quindi vediamo di conoscerla meglio. Iniziamo con il dire che si tratta di un sistema proporzionale corretto, con premio di maggioranza e sbarramento, e sono proprio queste caratteristiche a renderlo molto simile ad un maggioritario. Non è questa la sede per analizzarla nel dettaglio. Cercherò di cogliere gli elementi più importanti che servono al nostro ragionamento. A mio avviso il più significativo al riguardo è che il “porcellum” prevede le “liste bloccate”. Significa che l’elettore nel momento in cui entra nella cabina elettorale, sulla scheda trova dei simboli e dovrà sceglierne uno sul quale mettere una croce. E come tutti sappiamo i simboli dei partiti, vedi Pd, Pdl, M5s eccetera, sono legati in maniera indissolubile ai loro leader. Quindi la croce istintivamente la metteremo su un partito anziché su un altro, perché ci piace la capacità o l’oratoria o qualsiasi altra caratteristica di un leader piuttosto che di un altro, dimenticando che siamo lì per scegliere il nostro rappresentante da mandare in Parlamento per svolgere la funzione “legislativa” (vedi l’art. “Lo squilibrio dei poteri”). Ad ogni simbolo è collegata una lista, e gli elettori più attenti, entrando nella sezione elettorale si saranno accorti che sotto il logo dei partiti, scritto con caratteri minuscoli, c’è un elenco di nomi, perlopiù sconosciuti. Queste sono le “liste bloccate”, nel senso che l’ordine dei nomi non può essere cambiato. Significa che quando si andranno a contare i voti si affideranno i seggi (630 posti alla Camera e 315 al Senato), in base al risultato ottenuto da ciascun partito. Quindi a seconda dei voti presi dal partito o meglio dalla coalizione, e a seconda se si vince o si perde, con un semplice calcolo matematico saranno eletti in Parlamento rispettando la posizione nella lista. Ma non finisce qui, perché il sistema prevede il famoso collegio plurinominale, cioè un candidato può presentarsi in più circoscrizioni e, se è stato collocato nelle prime posizioni della lista, rientrerà dappertutto, scegliendo a suo insindacabile giudizio dove essere eletto. Quindi, optando per un collegio piuttosto che un altro, determinerà anche i risultati degli altri candidati. Mi spiego meglio con un esempio: se un candidato viene inserito al primo posto della lista, sia nella circoscrizione di Chieti che in quella di Milano e il partito prende abbastanza voti, lui ha la possibilità di scegliere se essere eletto a Chieti o Milano. Se ad esempio opterà per il collegio di Chieti dovrà rinunciare a quello di Milano, quindi il secondo della lista di Milano entrerà al suo posto, e così possono fare tutti. Insomma in maniera scientifica è possibile determinare la composizione delle Camere. Ma la domanda più importante è: chi compila le liste? Chi sceglie l’ordine dei nomi da inserire? La risposta è semplice, le scelte le fanno i partiti che dal livello locale seguono le direttive nazionali. Quindi, per farla breve, le liste vengono composte dall’esecutivo, in barba a Montesquieu e all’equilibrio dei poteri. I parlamentari, cioè i rappresentanti del popolo, che l’articolo 1 della Costituzione definisce “sovrano”, sono dei perfetti sconosciuti, che non hanno alcun rapporto con gli elettori, e sono eletti in Parlamento perché scelti dal potere esecutivo, che sulla carta dovrebbe “eseguire” le decisioni del legislativo. È così evidente l’inversione dei rapporti di forza, che basta osservare come viene utilizzato il voto di fiducia. La nostra Costituzione prevede che il Presidente del consiglio, una volta scelti i ministri, si presenti in Parlamento (unico organo eletto dai cittadini) a presentare la squadra e il programma politico, chiedendo la fiducia delle due Camere. Questo significa che il potere esecutivo si regge sulla fiducia concessa dal potere legislativo, eletto dal popolo. Nel momento in cui il Parlamento toglie la fiducia al governo, quest’ultimo non è più legittimato dai cittadini e di conseguenza cade. Quindi la fiducia dovrebbe essere un monito del Parlamento nei confronti del governo, il quale dovrebbe sempre essere attento a meritarla. Oggi accade esattamente il contrario, regolarmente avviene che il governo ponga il voto di fiducia sui suoi decreti. In maniera spicciola, il messaggio indiretto del governo è: “votate il mio decreto, altrimenti mi sfiduciate e andiamo tutti a casa”. Vediamo e ascoltiamo sempre più spesso parlamentari che pur essendo contrari votano a favore perché minacciati dal voto di fiducia. È naturale che sia così, perché il Presidente del consiglio si sente forte e riconosciuto, sa che il popolo avendo votato per la sua lista intendeva votare per lui, identificandosi in un partito che non esiste. Invece il parlamentare è uno sconosciuto, che ha ottenuto quel seggio solo perché inserito in posizione utile in una lista bloccata. Non rappresenta nessuno se non se stesso, un semisconosciuto che non ha alcun rapporto con il popolo, quindi in caso di votazioni non avrebbe chance se non aiutato dal “capo”. Abbiamo quindi il potere legislativo completamente asservito all’esecutivo, l’uomo forte al potere che vuole sempre essere meno intralciato dai vincoli democratici. I fautori di questo modello ci ripetono spesso che è necessario andare verso questo sistema perché ce lo chiede l’Europa. Ma la domanda che dovremmo porci è: quale Europa? Probabilmente più che l’Europa politica ce lo chiede quella finanziaria. Forse perché, il potere economico, che ormai detiene i debiti pubblici dei Paesi, e che può deciderne le sorti, ha bisogno di parlare e confrontarsi con poche persone che abbiano autonomia e libertà d’azione. Quindi il concetto di rappresentanza è rimasto solo scritto nella Costituzione e nei testi di diritto pubblico, nella realtà ciò che conta e di cui tutti parlano è la governabilità. Infatti, non c’è politico che non ripeta che il Paese ne ha bisogno, facendo riferimento ai numerosi governi della Prima Repubblica. Dimenticando però una cosa molto importante: se è vero che i governi avevano una vita media di meno di un anno, è altrettanto vero che c’era continuità politica, quindi cambiava il nome del Presidente del consiglio e di qualche ministro, ma i partiti (che allora contavano più delle persone) erano sempre gli stessi. Di conseguenza spesso si trattava di un cambio di facciata, e non di progetti o programmi. Il cambio di governo era dovuto soltanto ad aggiustamenti e rimpasto di alcuni incarichi. Questo anche perché, come ho già accennato, il maggior partito di opposizione che aveva una visione politica ed economica completamente diversa dal “pentapartito”, era estromesso dal governo del Paese. A dimostrazione di quello che ho affermato in riferimento alle distorsioni negli equilibri politici dovuti alla legge elettorale, la Corte Costituzionale con sentenza numero 1 del 2014, ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Calderoli. I motivi della sentenza sono prevalentemente due: il primo consiste nel fatto che l’attribuzione del premio di maggioranza (i seggi in più assegnati al partito che vince, ma che non ha raggiunto la maggioranza assoluta che gli permette di governare) non è vincolato ad una soglia minima di voti, quindi trasforma una minoranza in maggioranza, alterando il principio di democrazia; il secondo è che il sistema delle liste bloccate annulla qualsiasi rapporto tra eletto ed elettore. Per dirla con le parole della Corte, le liste bloccate: “coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 della Costituzione”. Alla luce di questa sentenza il Parlamento nel maggio del 2015 ha partorito la legge numero 15, una nuova legge elettorale chiamata patriotticamente “Italicum”. Al varo della stessa erano tutti entusiasti, e l’allora Presidente del consiglio Matteo Renzi si spinse addirittura a dichiarazioni trionfalistiche che suonavano più o meno così: “l’Italicum è la legge elettorale migliore del mondo, vedrete che tra sei mesi ce la copieranno in molti”. Nella realtà dei fatti, dopo appena cinque mesi, il governo ha iniziato a parlare di modifiche, perché pare che non fosse poi così perfetta come si credeva. L’Italicum prevede un sistema maggioritario a doppio turno con un premio di maggioranza alla lista che ottiene il 40% dei consensi e nonostante i buoni propositi, si prevede un ridimensionamento, ma non l’annullamento del sistema delle liste bloccate. Insomma, la classe politica non ce l’ha fatta proprio a rinunciare alla nomina dei parlamentari. Infatti è prevista la suddivisione del territorio italiano in cento collegi plurinominali con capilista bloccati (nel “porcellum” tutta la lista era bloccata) e nove collegi uninominali (delle province autonome). Quindi la lista di maggioranza otterrebbe 109 deputati “nominati” su 340, ai quali si aggiungerebbero i capilista degli altri partiti, con il risultato finale che più della metà dei parlamentari risulterebbe nominata dall’esecutivo. Inutile dire che anche questa riforma non è riuscita a passare il varo della Corte Costituzionale, la quale nel gennaio del 2017 si è pronunciata nuovamente, bocciandola in parte. Infatti la consulta ha dichiarato l’incostituzionalità del ballottaggio, in quanto una lista al secondo turno avrebbe potuto ottenere la maggioranza dei seggi indipendentemente dal risultato ottenuto al primo turno. Ad esempio, si sarebbe potuto verificare che un partito che al primo turno avesse ottenuto il 20% dei voti, vincesse poi il ballottaggio ottenendo il 54% dei seggi, violando il principio di proporzionalità e rappresentanza. Bocciato a metà il sistema del collegio plurinominale, infatti, è stata lasciata la possibilità di candidarsi in più collegi elettorali, ma in caso di elezione, l’eletto non potrà scegliere e si dovrà procedere per sorteggio. Senza prolungare la discussione sui tecnicismi, è importante notare come con questa sentenza, prevedendo l’immediata applicazione, si potrebbe tornare subito alle urne. Tuttavia, ci sarebbero una serie di difficoltà: la più rilevante è che l’“Italicum”è applicabile solo per la Camera dei Deputati. Questo perchè è stata scritta precedentemente al referendum costituzionale, quando con una notevole dose di ottimismo si credeva che il Senato sarebbe stato abolito. Quindi il risultato sarebbe che, se si dovesse andare al voto oggi, dovremmo applicare due leggi elettorali per i due rami del Parlamento: l’“Italicum” modificato dalla Corte Costituzionale per eleggere i deputati della Camera, e il “Consultellum” (il “Porcellum” corretto dalla Corte Costituzionale) per eleggere i Senatori. Insomma un caos assoluto, ma a mio avviso, ancora peggio del fatto che ci siano due leggi elettorali per eleggere i due rami del Parlamento, c’è il fatto che abbiamo un organo legislativo che in più di dieci anni non è riuscito a fare una legge elettorale, perché ogni volta ha cercato di fare una legge su misura per i partiti che erano in quel momento di maggioranza, piuttosto che mirare all’interesse del Paese. Insomma, siamo di fronte ad una classe politica talmente autoreferenziale che è diventata incapace anche di stabilire lo strumento basilare per una democrazia: il metodo di eleggere la sua classe dirigente, ed è stata quindi costretta a delegare questa funzione alla Corte Costituzionale. Ciò la dice lunga sulla qualità dei nostri governanti, e dovremmo iniziare a non accettare più a scatola chiusa decisioni così delicate, ad essere critici e guardare oltre le frasi ad effetto che ci propugnano. Cominciare a pensare che forse non abbiamo poi così bisogno di questo “salvatore della patria” che arriva e ci porta in salvo, in cambio chiede “solo” di avere le mani libere, così che possa agire indisturbato senza l’intralcio di tutti quei signori che siedono in Parlamento. Dovremmo iniziare a “sporcarci un po’ le mani”, cercando di interessarci di più al dibattito pubblico, entrando nel merito e cominciare a mettere in discussione l’operato di una classe politica che non ci rappresenta più. Forse dobbiamo iniziare a pretendere la rappresentanza, quella vera, oltre che la governabilità, perché ci sono voluti secoli e sangue per acquisire alcuni diritti, e una volta persi sarà difficile riconquistarli. Anche perché, oggi, le rivoluzioni non le fa più nessuno.